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NEMICI, UNA STORIA D'AMORE
(ENEMIES, A LOVE STORY)
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di Paul Mazursky, con Ron Silver, Anjelica Huston, Lena Olin, Margaret Sophie Stein - Data recensione originale: 09.02.1991 (Stati Uniti, 1990)
 
L'Olocausto riflesso non solo in un triangolo amoroso, ma addirittura in quello che si potrebbe definire un quadrato erotico. È la scommessa difficile, parzialmente riuscita, a tratti esaltante di questa tragi-commedia tratta dal romanzo del celebre scrittore ebraico Isaac Bashevis Singer: che potrebbe anche rimanere nella storia del cinema come l'opera più sofferta e ispirata di Paul Mazursky (NEXT STOP, GREENVICH VILLAGE), regista brillante, dotato ed intelligente quanto discontinuo.

Herman Broder (Ron Silver) sopravvive alla guerra in Polonia, nascosto in una stalla. Nel 1949 vive a Coney Island con Yadwiga (Margaret Sophie Stein), la serva polacca della sua famiglia ebrea che gli ha salvato la vita e che lui ha sposato per riconoscenza. Ogni tanto, con pretesti la cui assurdità è soltanto pari alla sconfinata ingenuità della moglie-contadina, parte nel Bronx, dove risiede con l'amante Masha (Lena Olin), una sopravvissuta ai campi di sterminio, "un po' folle ed appassionata". Fino a quando, nell'estate del Lower East Side di Manhattan ricompare come un fantasma Tamara (Anjelica Huston), la moglie di prima della guerra creduta morta. La madre dei propri figli (scomparsi effettivamente nell'Olocausto), una donna con la quale litiga come con le altre, ma la sola alla quale non è costretto a mentire.

Così, immerso nel dilagare della musica klezmer (quella degli ebrei di Odessa di fine secolo) che si fonde alle melodie d'epoca delle Andrews Sisters (Michel Jarre ha composto un melting pot melodico di fascino indubbio), nei profumi della gastronomia yiddish che gli propinano le svariate suocere, negli intrallazzi semiseri dei rabbini-businessman di Central Park e di tutta una galleria inenarrabile di sopravvissuti dello shtetl polacco, il nostro si ritrova ai piedi del cartello indicatore nella metropolitana: Brooklin, Manhattan, o il Bronx. La tragedia (come in OTTO E MEZZO - Mazursky ha idolatrato Fellini, ed il cinema europeo di Renoir, Truffaut, a tal punto da dedicare buona parte della sua carriera a dei remakes di questi autori - agli occhi del protagonista riaffiorano i fantasmi dell'orrore vissuto) di questo sopravvissuto del Vecchio Continente diventa allora quella del non saper scegliere. Come nei film dell'altro grande regista della tradizione ebraica nuovayorchese (e altro grande appassionato del cinema europeo) Woody Allen, la comicità di situazione si fa analisi sociale e comportamentale. E psicologica: agli occhi di Ron Silver le tre donne assumo sempre di più i contorni tormentati del proprio io, dinamitato da un trascorso nel dramma. Ma come nel romanzo di Singer il fascino, la poesia di ENEMIES, nasce dal fatto che queste proiezione psicologiche e fantastiche s'incarnano in quattro figure di sopravvissuti estremamente reali, materiali, sensuali.

Dall'orrore totale trasmesso della memoria, alla realtà della vita colta dai sensi in tutta la sua contraddittoria voluttà: che sia quella offerta dai profumi kosher o dalla sottomissione domestica della moglie contadina, dall'intelligenza arguta della moglie saggia (strepitosa Anjelica Huston) alla straripante sensualità di quella più tormentata (la veemenza della bellissima Lena Olin). A questo enorme materiale (per estensione, ma forse ancor più per introspezione), Mazursky offre la grazia e la sensibilità del pittore di costumi e di ambienti che conoscevamo: non è tanto la misura della ricostruzione d'epoca ad impressionare (il budget del film era sicuramente non esorbitante), ma la dismisura dell'ambientazione umana. Una infinita galleria umana, dai più umili ai più determinanti, dai portieri d'albergo alle madri invadenti, una serie interminabili di secondi-ruoli e di figuranti dipinta con altrettanto infinito umore ed affetto, sui quali l'occhio dello spettatore si sofferma deliziato, specie quando qualche risvolto della vicenda che gli è estraneo culturalmente tende a sfuggirgli.

Dismisura esaltante, e anche mortificante. Alla quale il laborioso lavoro di adattamento dall'opera letteraria ha lasciato non poche tracce: ENEMIES - aldilà dell'emozione che lo guida, dell'autenticità dello sguardo che pone sull'ambiente, della direzione strepitosa degli attori - è anche un film eccessivamente dimostrativo, ripetitivo e disordinato. Ma creare fantasmi di voluttà partendo da quelli di morte, echi di comicità da quelli di tragedia, olocausti dell'individuo da quelli delle genti significa anche sapere rendere la storia in riflessione, l'esperienza in poesia. Che è poi quello, al di là degli scompensi cosiddetti strutturali, che chiediamo ad ogni artista.


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